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  • Immagine del redattoreAnnaindossatricedipigiami

IL COLORE DELLE MORE

Il mio primo vero post sarà un racconto a cui tengo molto perché è il primo elaborato dopo una lunga pausa da questo tipo di scrittura. Premetto che non sono solita far leggere ciò che scrivo ad altri e che ritengo ci siano molti difetti nella narrazione, ma visto che sono qui per condividere diverse esperienze ho pensato che tanto vale uscire completamente allo scoperto.

La storia nasce semplicemente dal profondo bisogno di svuotare la testa dalle mille immagini da cui era invasa in quel periodo e dal fatto che scrivere è l'unico modo di farlo che conosco.

Enjoy!



IL COLORE DELLE MORE

Raccogliere le more è molto difficile. Ci vogliono costante impegno e attenzione. I rovi spinati possono riempire di piccole cicatrici ogni singolo centimetro di pelle. Certo, alla piccola Anita questo non importava. Avrebbe ricordato per sempre quelle mattinate estive correndo in bicicletta attraverso gli ulivi, incidendo la terra rossa, le orecchie pervase dal costante cicaleccio solo per raggiungere i rovi scuri e brillanti. Scaraventata la bici contro il suolo, correva a immergervici le braccia per uscirne con mani cariche di piccoli frutti, il cui succo purpureo si mischiava alle piccole gocce di sangue degli innumerevoli tagli. Ad Anita piaceva sedersi per terra, disporre le more in fila, rigorosamente dalla più grossa alla più piccola, per poi partire a mangiarle una alla volta dal centro. Soddisfatta, con labbra e denti violacei, sedeva sotto un ulivo e raccoglieva i gusci di cicale: ne faceva la collezione, come ogni bambina che si rispetti. Quando risaliva sul sellino per tornare a casa le sembrava sempre che la strada fosse più lunga. Era una cosa che le succedeva spesso quando si spostava: l’andata brevissima, mentre durante il ritorno il tempo sembrava dilatarsi. Aveva iniziato a pensare che ad un tratto di ogni strada di ritorno ci fosse un buco nero che la risucchiava. Aveva letto quella parola su un libro in biblioteca e le era stato spiegato che era una sorta di macchia trasparente nella quale il tempo e lo spazio si dilatano e dalla quale non si sapeva se si potesse uscire. Non aveva capito molto bene a cosa servissero, né dove si trovassero, ma le sembrava ragionevole che ce ne fosse uno in ogni ritorno. Più avanti avrebbe deciso che era impossibile in quanto la strada che faceva per tornare era la stessa che percorreva all’inizio, quindi avrebbe dovuto trovare un buco nero anche allora, ma questo non succedeva. Già in tenera età Anita aveva capito che l’avere una meta è il nostro unico mezzo per motivarci al movimento e forse alla vita stessa, in quanto, anche quando pensiamo di non avere un punto di arrivo, continuiamo a confrontarci col mondo, a cercare di uscire dall’inerzia, dal ristagno. Il confronto con il circostante è il nostro motore. Il ritorno è quel momento di riposo che ci concediamo dopo aver raggiunto un obiettivo, prima di poterne affrontare un altro. Abbiamo bisogno di rientrare per condividere con le persone che amiamo la nostra impresa, che non necessariamente ha avuto un epilogo positivo. Il riposo ha bisogno della quiete e del calore.

Anita tornava a casa, sistemava con cura il lascito delle cicale in una scatoletta rossa e, con quella in mano e un bicchiere di plastica con parte del suo raccolto nell’altra, correva dalla sua amica Erminia. Più volte Erminia le aveva chiesto di portarla con sé nelle gite, ma Anita aveva sempre rimandato. Le voleva molto bene, ma riteneva di dover fare certe cose da sola, con i suoi tempi e i suoi spazi.

Erminia ed Anita sono ancora amiche, dopo vent’anni. Ora vivono in luoghi molti distanti ed Erminia non ha mai raccolto le more, ma ogni estate Anita le manda vasetti di marmellata di more fatta da lei e ad ogni vasetto accompagna un piccolo disegno di cicala. Le more sono molto difficili da raccogliere. Ora Anita pone estrema attenzione nel cercare di uscire dal raccolto con meno graffi possibile. Le piace, dopo aver terminato con le more, fermarsi a cogliere delle rose. Rose e more, more e rose. La colpisce sempre l’amabile assonanza tra le due e il fatto che entrambe siano avvolte da piccole spade pronte a difenderle da tutto. Entrambe bellissime. In fondo, se è davvero la bellezza ciò che salverà il mondo, essa deve tutelarsi come può.

Anita torna verso casa col cestino pieno di more e rose, rose e more. Non ha fretta, si gode il suo cammino, si ferma a fissare l’azzurro cielo estivo, annusa quel particolare profumo che solo certe giornate estive hanno. Non si è mai spiegata come ogni giorno abbia un odore sempre diverso dall’altro. Pensa che tutto ciò le mancherà, per un secondo pensa di volersi fermare e stare per tutta la sua vita sdraiata sulla terra rossa in mezzo agli ulivi a fissare il cielo e mangiare more. Sta per trasferirsi, andrà a vivere in una città lontana, sente il bisogno di andare, di vedere, di sperimentare. Eppure per quel singolo, eterno attimo lei è lì, sente di appartenere a quel luogo e di non poterlo lasciare. Lì è dove sono le sue radici, ma se esse sono parte della terra i rami dell’immenso albero che sta crescendo vogliono arrivare ad espandersi il più possibile, a toccare le nuvole. Così Anita continua la sua strada verso casa.

Casa di Anita ora è lontana, non è quella piccola struttura bianca alla fine del sentiero serpeggiante tra gli ulivi, ma si trovo in un’affollata nuvola di smog.

Anita non sa se è felice, a dire il vero non sa bene cosa sia la felicità. Non crede esista una felicità perpetua, che inizia in un determinato momento e proceda senza essere scalfita fino alla fine della vita. Pensa piuttosto che esistano momenti ineguagliabili in cui ci si sente come se tutto fosse noi e come se noi fossimo tutto, pieni e completi.

Corre da una parte all’altra della città, fa la correttrice di bozze in una piccola casa editrice. Legge, legge e rilegge, le lettere si uniscono e si distanziano come in una semplice e lineare danza che la rassicura. Ama quello che fa. Ama essere quella che è. Ama stare seduta sul pavimento del suo piccolo appartamento alla fine del sentiero serpeggiante di alti palazzi, fissando il soffitto bianco, ascoltando i vicini che ridacchiano e facendo fluttuare la mano destra sopra di sé, sognando di essere vento, sognando di essere mare.

Anita scrive decine di lettere ad Erminia. Le parla di ciò che fa, delle persone che vede, le descrive il vecchietto con l’impermeabile giallo e il cappello rosso che ogni mattina la saluta e le offre un ombrello anche se non piove, le parla del mercato del pesce, che ritiene un posto affascinante, le parla dei ponti che ogni sera si illuminano e riflettono nell’acqua del fiume facendola sentire come in un’ottocentesca Parigi.

Le racconta che vuole visitare San Pietroburgo e ripercorrere le strade fatte da Dostoevskij, le parla della crostata di more che ha fatto qualche giorno prima e di come ogni volta le more le ricordino di lei e le strappino un sorriso.

Erminia si ritiene felice, lei crede in una felicità che dura per sempre. O meglio, crede che la felicità duri quanto lo si vuole, in quanto dipende dalle proprie scelte, azioni e accettazione di ciò che ci succede. Non ritiene la felicità come quella cosa che ti fa dimenticare tutto, ma come ciò che ti fa vivere bene con tutto.

Ora ha dei bambini che ama e che porta ogni estate a raccogliere le more e i gusci di cicala. Ha insegnato loro a vedere gli elfi, i folletti e tutte quelle creature magiche che si trovano nei boschi e che ti fanno compagnia nelle ore più solitarie dell’infanzia. Avere qualcuno con cui giocare è così importante, anche se quel qualcuno è solo frutto della fantasia, aiuta a non sentirsi soli. Quando già dall’infanzia ci si sente soli e persi, abbandonati, incompresi crescere risulta estremamente doloroso. La solitudine fa paura se non cercata. è giusto e bello rimanere soli quando sentiamo di doverlo fare, tutti ne abbiamo bisogno; è orribile sentirsi soli in mezzo a tantissime persone. è tremendo sentirsi soli stando con persone che ci vogliono bene.

Anche Erminia pensa alla sua amica ogni volta che vede delle more. E ora è lei a inviarle tutte le estati dei vasetti di marmellata con disegni di cicale fatti dai suoi figli.

Un giorno Anita sarebbe tornata nella sua vecchia casa bianca al finire degli ulivi e avrebbe portato con sé Erminia e i suoi nipoti a raccogliere le more in biciletta, avrebbero guardato insieme i loro visi sorridenti macchiati di rosso ovunque e le loro braccia graffiate, avrebbero raccolto delle more, si sarebbero sedute per terra, e, dopo averle sistemate in ordine decrescente, avrebbero iniziato a mangiarle dal centro. Sarebbero tornate dalla strada dove ancora c’erano delle rose da poter cogliere e avrebbero parlato di come la bellezza ancora non abbia salvato il mondo, ma di come essa sia riuscita a salvare loro.

Per ora Anita si limita a vivere i suoi brevi attimi di felicità, a sorridere pensando alle more e alle rose, alle rose e alle more, a leggere e rileggere, a ricevere vasetti di marmellate, ad incollare disegni di cicale al muro, al cercare di capire finalmente cosa siano i buchi neri, a cosa servano e dove si trovino, al mangiare gelato con gli amici, a dire al signore con l’impermeabile giallo e il cappello rosso che no, non le serve un ombrello, ma è molto gentile da parte sua preoccuparsene, a camminare tra la terra secca attraverso un sentiero serpeggiante di pioppi.

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